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Castello di Carini

Il Castello di Carini fu costruito tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII secolo su commissione del primo feudatario normanno Rodolfo Bonello, guerriero alle dipendenze del conte Ruggero I, sul sito dove si ergeva una preesistente costruzione di origine araba, di cui se ne attesta l’esistenza nel noto libro "Kitab Rugiar" che significa Libro di Ruggero, scritto dall’arabo Al-Idrisi prima della morte di Ruggero II.
Nel 1283, la struttura difensiva passò dal dominio di Costanza D'Aragona alla famiglia Abate, committenti dei primi lavori di trasformazione della fortezza in residenza, cui seguirono nel possesso del feudo di Carini la famiglia dei Chiaramonte (XIV secolo).
Nel 1397, il nuovo Re di Sicilia, Martino I decide di affidare la terra di Carini con tutti i suoi diritti e pertinenze ad Ubertino La Grua in cambio dei servigi resi, nonché due atti notarili attestano che il castello fu sottoposto a lavori di restauro, di cui uno risalente al 1484, mentre l'altro eseguito nel 1487, ad opera del maestro Masio de Jammanco.
Per raggiungere la fortezza occorre percorrere il Corso Umberto I, salire i gradini della Badia, dopodiché bisogna oltrepassare la porta che si apre nelle possenti mura medievali che anticamente tracciavano l'antico borgo, nella cui struttura si conservano elementi arabo-normanni visibili anche nella seconda porta la cui arcata a sesto acuto è sovrastata da uno scudo appartenente alla famiglia Abbate.
Entrando nel castello si osservi una caditoia utilizzata per impedire l'ingresso ai nemici, seguita
da una corte dalla quale si scorge la facciata interna, un tempo intonacata, oggi a faccia vista dove si aprono il portone di ingresso che conduce al piano superiore, e i quattro portali del piano terreno, sormontati dagli stemmi delle famiglie La Grua e Chiaramonte.
Al piano terra si apre una stanza con volta a crociera, seguita da un secondo ambiente privo del piano di calpestio, e da un grande salone diviso da due arcate a sesto acuto con colonna centrale.
Lungo il lato orientale si possono ammirare anche una stanza con lavatoio in pietra; una cappella affrescata a trompe l'oeil collocabile tra il XVII e il XVIII secolo dove sono custoditi un tabernacolo ligneo decorato da colonnine corinzie, e un matroneo ligneo.
Al piano superiore si accede mediante uno scalone in pietra realizzato dall'architetto Matteo Carnalivari intorno al XV secolo, in occasione dei lavori di ristrutturazione eseguiti intorno alla fine del Quattrocento.
Da visitare al piano nobile, il salone delle feste coperto da soffitto ligneo a cassettoni, con camino decorato dallo stemma della famiglia La Grua, ed ampie finestre con sedili addossati.
Un portale permette di accedere agli altri ambienti del piano superiore, di cui citiamo la stanza con volta a botte affrescata con le immagini di Penelope ed Ulisse, seguita da una stanza in stile pompeiano.
Una piccola scaletta permette di raggiungere le cucine del castello, mentre un’altra attigua sale ai piani superiori.
Sul lato occidentale del piano nobile si apre un’importante ambienti che merita attenzione perché si caratterizza per le vele e i pennacchi terminanti in pietra di Billiemi di stile gotico-catalano.
Una terza scala raggiunge la torre del castello che termina con un soppalco ligneo coperto da una volta a crociera con pennacchi terminanti in pietra di Billiemi; una porticina con arcata a sesto acuto immette in un terrazzino di recente costruzione dal quale si può ammirare il panorama della città.
Alzando gli occhi verso la torre si può ammirare la scultura di una mano, che per molto tempo si è pensato fosse stata realizzata per ricordare l'uccisione della baronessa di Carini, Laura Lanza di Trabia, avvenuta il 4 dicembre 1563.
La donna a soli quattordici anni andò in sposa, per volere del padre, al barone di Carini, don Vincenzo La Grua-Talamanca, ma ben presto, delusa dalla vita matrimoniale e dai continui abbandoni del marito, si innamora di Ludovico Vernagallo, e ne diviene l'amante.
Scoperta dal marito e dal padre, la Laura venne uccisa insieme a Ludovico, nella stanza del castello dove tutt’ora si può ammirare l'impronta “insanguinata” della Baronessa.